Il Mekong ha tanti nomi; in Cina questo fiume lo chiamano Za Qu, che significa “fiume di pietra”, e Lancang Jang, cioè “acqua turbolenta”. In Cambogia preferiscono chiamarlo Tonle Thom, “grande acqua”. Altri nomi? “Fiume del dragone”, e “fiume dei nove draghi”. In Thailandia infine è il Mae Nam Khong, “il fiume madre”, ed è proprio così, Mekong, che alla fine hanno finito per chiamarlo gli occidentali, disegnatori delle carte geografiche.
Nasce a cinquemila metri d’altezza, in Tibet, non lontano dalla sorgente di un altro immenso fiume (lo Yangtze) e quindi scende fino al piano e poi al mare della Cina.
In 4500 chilometri bagna anche Myanmar (l’ex Birmania), Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam. Lungo le sue immense rive sono sorti e si sono disfatti imperi, regni e domini coloniali. Pace e guerra si sono alternate senza tregua: il fiume è
stato testimone del tramonto della civiltà cambogiana di Angkor, dei bombardamenti americani, dei massacri perpetrati dai Khmer rossi, dei terribili traffici dei signori della droga… oggi però, dopo tanto clamore, il fiume sembra conoscere
un periodo di pace. Per la prima volta dopo mezzo secolo i cannoni tacciono (o,almeno, hanno abbassato di molto la voce) e le acque osservano la lenta rinascita dell’immenso territorio che, una volta tanto con felice sintesi, gli europei chiamarono Indocina.
Addirittura, un grande progetto, cui partecipano tutti gli Stati rivieraschi, prevede la costruzione di otto gigantesche dighe, che creeranno altrettanti laghi, vasti migliaia di chilometri quadrati, e consentiranno la produzione di almeno 24
milioni di megawatt di corrente. Le industrie fioriranno, ma il corso del fiume verrà a tal punto distorto che non solo scompariranno valli e foreste millenarie, ma la sua stessa essenza (per esempio le periodiche inondazioni che portano nei
campi della Cambogia il limo fertilissimo, senza il quale l’agricoltura morirebbe) ne sarà sconvolta.
La leggenda del fiume Mekong
Nel cuore della Cina il fiume parte in alto, all’ombra dei picchi della catena Tanggula. La sua sorgente è sacra. «In realtà ce ne sono due», spiegano ai viaggiatori i pastori tibetani. «C’è la sorgente in alto, sul ghiacciaio. Nessuno va fin lassù. Ci abita lo spirito del dragone Zajiadujiawangzha, e la protegge. E poi c’è la sorgente più in basso, quella sacra: gli uomini che vi si abbeverano vivono più a lungo. E anche gli animali». Vi si può giungere solo a cavallo, e sul grande pianoro gelato, chinandosi sul ghiaccio e appoggiandovi l’orecchio, si può udire il fruscio dell’acqua che scorre, e che diventerà il Mekong.
Poi il fiume scende, e per quasi 1600 chilometri scava profondamente il territorio della provincia cinese dello Yunnan. Lo incide, letteralmente, scorrendo in fondo a canyon profondi anche tre chilometri. E’ talmente immerso nelle viscere della terra che è difficilissimo seguirne il corso: i villaggi sono lontani dalle sue rapide, i ponti sono semplici cavi d’acciaio tesi fra le due rive rocciose, e per attraversarli i contadini si trasformano in acrobati. In tutto, finche si trova in territorio cinese, il Mekong è scavalcato soltanto da sei ponti carrozzabili.
Soltanto a poche miglia dal confine il panorama si apre, e ci si rende conto quasi all’ improvviso che siamo in zona tropicale: al mercato di Jinghong sono in vendita ananas, papaie, noci di cocco. Tutta produzione locale piccolissime (anche una trentinadi centimetri), come i componenti di un immenso coro portafortuna. «Le più antiche risalgono al Cinquecento», spiegano le guide, «e furono costruite durante un assedio della città. Da allora, durante le festività del Pi Mai, il nostro capodanno, tutta la gente viene fin qui, lava le statue con acqua profumata e le copre di fiori». Qui il fiume porta anche oro: pagliuzze che i cercatori raccolgono sulla riva, setacciando la sabbia.
A tre chilometri dalla città, sulle rive di un piccolo affluente, c’è infine un tumulo seminascosto dalle felci: “Henri Mouhot, esploratore. 1826-1861”. Mouhot, francese, archeologo (fu lo scopritore dei templi di Angkor), penetrò nel Laos
risalendo le rive fangose del fiume ancora sconosciuto, e morì qui, stremato dalla febbre. Lasciò scritto, nel suo diario: «La vista del Mekong ha su di me lo stesso effetto dell’incontro con un amico: da molto tempo bevo le sue acque; anche
se mi tormenta è, per me, una vecchia conoscenza».
Il fiume diventa pianura
Il fiume abbandona il Laos e penetra in Cambogia in maniera spettacolare: un salto nella schiuma e nei vortici di oltre dieci chilometri di cateratte, le Khone Falls. Poi all’improvviso si placa, si allarga a dismisura e sembra entrare in sintonia con un nuovo paesaggio. La Cambogia è una grandiosa pianura acquatica, coperta di risaie e foreste umide di vapori. D’estate, quando si sommano i monsoni del Laos, del Myanmar e della Cina, l’intero Paese si allaga: il Mekong sembra invertire addirittura il suo corso, trabocca, dilaga e invade migliaia di chilometri quadrati di terreno. Il fiume porta il limonecessario a far crescere il riso, e porta i pesci, e poi rane e granchi. I contadini si trasformano in pescatori, e basta loro immergere le mani nell’acqua, per raccogliere.
Dice una leggenda cambogiana che i pesci nascono dalle radici degli alberi e che, quando viene la stagione secca e l’acqua si ritira, vanno a nascondersi nei tronchi cavi, o sottoterra.
Un’altra leggenda racconta che il fiume riprende la sua corsa verso il mare a novembre, e per farlo ha bisogno di un ordine superiore: così fino agli anni Settanta (quando la Cambogia è piombata nell’orrore della rivoluzione dei khmer
rossi) erano il re e la regina a navigare fino al centro del fiume. Qui tagliavano un nastro teso da riva a riva, e dopo un attimo d’esitazione le acque cominciavano a ritirarsi.
Oggi il Paese va verso una lenta ricostruzione. Da un paio d’anni si è di nuovo tornati a una timida economia di mercato, ci sono i primi investimenti stranieri. Le strade di Phnom Penh sono perennemente affollate, e il parossismo viene raggiunto durante il Prachem Ben, il giorno dei morti, di fronte al tempio principale, il Wat Ounalom, affacciato sul fiume.
Ancora la tradizione: «Tutti i morti tornano alle pagode, per incontrarsi con i loro parenti, che portano loro fiori, frutta, riso, pesci e pane. E se non li trovano l’annata sarà triste e gli affari scarsi, per tutta la famiglia».
Una Venezia sull’acquitrino
Il Vietnam, infine. Se nel suo corso il Mekong ha avuto un andamento regolare, un flusso facilmente identificabile, qui il fiume sembra impazzire. Già subito dopo il confine si divide in due grandi rami, il Tien Giang e l’Hau Giang (più o meno, “fiume di sopra” e “fiume di sotto”). Poi il delta si apre ancora, le braccia diventano sette, nove, infinite. Ruscelli e canali l’intersecano, e tutto il Paese diventa un’immensa Venezia acquitrinosa, galleggiante sulle mangrovie, fatta di canneti, paludi, sabbie mobili. E popolatissima: il Vietnam ha la più elevata densità di popolazione, nel Sud est asiatico, e circa 15 milioni di abitanti vivono qui.
E’ difficile trovare un tratto di canale deserto: le barche s’incrociano ovunque, e quando è giorno di mercato l’affollamento è incredibile. Sono soprattutto donne, a governare le piroghe: si avvicinano alle barche più grandi, quelle dei mercanti, contrattano, comperano, vendono. Questa è una zona ricca, almeno in termini locali: vi si produce metà del raccolto nazionale del riso, ma si stanno sviluppando anche nuove iniziative, come l’industria peschereccia e quella dei gamberi. Nam Can, per esempio, era fino a qualche tempo fa un villaggio di pescatori.
Oggi tutta la sua economia ruota intorno alla Fabbrica 29: più di ottocento persone, quasi tutte donne, che raccolgono, lavorano, puliscono e surgelano il tom xu, un gamberetto graditissimo sul mercato giapponese. Il reddito medio qui è il doppio, rispetto a quello del Paese. «Sono stati costruiti alberghi, ristoranti, è arrivata la luce elettrica, e il numero degli abitanti è raddoppiato», racconta Nguyen Truong Giang, che a 29 anni è già vicedirettore della fabbrica. «Peccato che con i soldi sono arrivati anche i vizi, e la prostituzione». Al punto che, ogni tanto, la “fabbrica dei gamberi” si ferma, e le lavoratrici guardano, tutte insieme, un video che insegna la prevenzione contro l’Aids. Nuovi mali, che vengono ad aggiungersi a quelli angosciosi lasciati dalla guerra contro gli americani: su queste acque, su queste foreste, dal 1962 al 1970 gli aerei riversarono centinaia di tonnellate di un erbicida noto come Agent Orange: doveva servire a spogliare delle loro foglie gli alberi, e svelare i nascondigli dei vietcong.
L’Agent Orange conteneva diossina. Oggi questo veleno non scorre soltanto nelle vene di coloro che combatterono, vent’anni fa, ma anche in quelle dei loro figli e dei loro nipoti: il tasso delle malformazioni, dei parti innaturali, dei bambini ridotti a mostri qui è altissimo. Ma fuori, nell’aria, c’è già l’odore del sale. Il mare aperto è a pochi chilometri, e il grande fiume sta per finire il suo corso.
Sulle rive del fiume Mekong
Il corso del Mekong attraversa o lambisce sei Stati.
Cina. Il fiume scorre attraverso la provincia dello Yunnan, scarsamente popolata (su scala cinese): solo 36 milioni di abitanti.
Myanmar. E’ l’antica Birmania. Regime militare a ispirazione socialista. 35 milioni di abitanti, per l’80 % buddhisti. Il Mekong funge da confine con il Laos.
Thailandia. Una monarchia costituzionale, con il potere di fatto condizionato dalle Forze armate. 55 milioni di abitanti,
quasi tutti di etnia thai e di religione buddhista. Il Mekong funge da confine con il Laos per quasi tutta la frontiera.
Laos. Repubblica socialista (monarchia fino al 1975). 3 milioni e mezzo di abitanti, prevalentemente buddisti.
Cambogia. Repubblica governata dal 1982 dal Partito popolare rivoluzionario, dopo la dittatura dei khmer rossi, sconfitta nel 1979. Grossi problemi di stabilità interna. 7 milioni di abitanti, di etnia khmer, e religione
buddista. Vietnam. Repubblica socialista. 64 milioni di abitanti. Diffusi buddismo e taoismo.